"SCOPRI IL COACH - 1": CONOSCIAMO ELENA SORDELLI

Inizia oggi una nuova rubrica del nostro sito web. Popolo dell'atletica, voi che correte, accompagnate, seguite e tifate: conoscete chi sono quegli allenatori e allenatrici che incontrate in pista, in tribuna, al bar dopo gara? Sapete quanti e quali campioni continuano a dedicarsi all'atletica, a far crescere i più giovani mettendosi a disposizione della passione e del talento dei nostri atleti? "Scopri il coach" è il posto dove raccontare e "far raccontare" gli allenatori dell'atletica milanese: una breve scheda personale e poi a loro la parola! Ci saranno grandi scoperte da fare. Iniziamo oggi a conoscere Elena Sordelli. Buona lettura

(Invitiamo tutte le società milanesi a segnalarci i loro allenatori dal passato "glorioso": Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.).


Elena Sordelli, 44 anni, è allenatrice dei velocisti del Geas Atletica di Sesto San Giovanni. Prima di diventare allenatrice, Elena è stata per oltre 10 anni una velocista nazionale, pedina fissa della staffetta azzurra 4x100 e specialista dei 100 metri. Su questa distanza ha vinto due titoli nazionali assoluti (1998 e 2006), ha partecipato alla Coppa Europa del 2006, ai Giochi del Mediterraneo del 2005, alle Universiadi del 1997 e 1999, ai Mondiali Indoor (60 piani) del 1997.

Con la staffetta 4x100 ha partecipato ai Campionati Mondiali, Europei, Coppa Europa e Giochi del Mediterraneo. I suoi primati personali sono di 11.56 nei 100, 24.05 nei 200 e 7.38 nei 60 indoor. E' laureata in Scienze Motorie.

coach sordelli

Come e perché hai iniziato a fare atletica?

Ho provato tanti sport fin da bambina, ne facevo anche più di uno insieme: nuoto, pallavolo, canoa e a un certo punto è arrivata anche l’atletica. Ed è stato merito di varie persone, prima fra tutte la mia mamma che da ex-atleta di discreto livello ha sempre fatto il tifo perché io facessi atletica, ma senza mai spingere o insistere troppo. Mi ricordo ancora che ogni tanto mi diceva: “se facessi atletica ti piacerebbe e saresti anche molto brava”. Beh, mi sa che aveva proprio ragione! E poi avevo voglia di uno sport individuale, dove solo io ero responsabile e artefice dei miei risultati. Così iniziai con un’amica al Centro Schuster a Milano. La mia decisione è stata alimentata anche da altre persone importanti, in particolare dal professore di educazione fisica della scuola media che ora è un mio caro amico (Marco Corradini, ndr). Inoltre, grazie a lui, dopo qualche anno al Centro Schuster, quando sentii che potevo essere valorizzata di più, approdai al GEAS di Sesto San Giovanni, in quanto sapevo che lui era allenatore lì, e dove ancora oggi anche io alleno.

Come e quando hai scoperto la tua specialità?

La velocità l’ho scoperta subito. Forse ancora prima di iniziare a fare atletica. Mi è sempre piaciuto correre veloce, più veloce che potevo, ovunque. Per strada, nei prati e anche in pista. Da bambina in cortile, a scuola, all’oratorio, sfidavo tutti i maschi nella corsa veloce. E solo da più grandicelli uno di loro iniziò ogni tanto a battermi.

Poi, quando ho cominciato a praticare l’atletica a livello agonistico, le gare di velocità erano quelle in cui non solo vincevo o mi ben piazzavo più spesso, ma erano anche quelle che preferivo perché  mi facevano sentire di più l’adrenalina; eran quelle in cui mi sentivo di esprimere il senso esatto di ciò che ero e che sono: scatto ed esplosività!

Non andavo male neanche in discipline simili come il salto in lungo, gli ostacoli e anche il salto in alto e addirittura anche il getto del peso, dove comunque è importante una certa esplosività di gambe, come si dice! Ma di certo dentro di me mi sentivo velocista.

A quell’età, nella categoria Ragazza e Cadetta comunque si prova un po’ tutto. Anche le corse campestri, ma ho capito subito che non facevano per me: mi nascondevo dietro gli alberi, oppure stavo nel gruppo molto annoiata e con molta fatica, e poi gli ultimi cento metri scattavo recuperando posizioni!

Qual è la gara a cui sei più affezionata?

È difficile rispondere a questa domanda. Ho avuto una lunga carriera e di momenti e gare belle ed emozionanti ce ne sono stati tanti, fortunatamente di più di quelli brutti vissuti in periodi difficili, e tutti legati a momenti molto diversi tra loro: le emozioni vissute ad inizio carriera da giovanissima e magari al debutto in Nazionale sono molto diverse da una gara magari ugualmente importante ma vissuta da matura.

Però, se dovessi proprio sceglierne una, che non è strettamente legata alla vittoria di una medaglia, cosa che dà sempre una forte emozione, direi la gara del mio primato personale sui 100 metri (23/6/2007, 11.56). Non solo perché è stata la mia gara migliore a livello cronometrico, ma perché tre fattori l’hanno resa indelebile nella mia memoria.

Primo: era una gara con la Nazionale, precisamente la Coppa Europa, quindi, il fatto di indossare la maglia azzurra è sempre motivo di grande fierezza ed esaltazione, anche dopo 12 anni di presenza nella squadra!

Secondo: la manifestazione si svolgeva a Milano, all’Arena, uno degli scenari più belli dell’atletica, in una cornice particolare, non solo per il suo fascino indiscutibile, ma perché per me è la pista delle gare di casa, che mi ha visto alle prese con le mie primissime competizioni e il mio primo grande successo al trofeo “Il ragazzo più veloce di Milano”… solo 18 anni prima!

E, infine, ciò che ha reso quella gara particolare è che avevo di fianco il mio mito di sempre: la velocista giamaicana (poi slovena per matrimonio) Merlene Ottey, che seguivo da tifosa fin da ragazzina. Non era la prima volta che la incontravo da avversaria, solo che questa volta le finii davanti. Certo, io al top e lei a fine carriera, già trentasettenne, ma fu una vittoria di grande soddisfazione e fu molto bello ed emozionante ricevere a fine gara i suoi complimenti.

Altre gare che lasciano ricordi bellissimi sono le due medaglie ai Campionati Europei under 20 e under 23 e i Campionati del Mondo assoluti, dove si respirano un’aria e un’atmosfera magica da grande evento. Lì ti senti veramente grande, anche nel tuo piccolo.

Cosa ti ha insegnato e lasciato l’atletica?

L’atletica mi ha insegnato la dedizione, l’impegno e la disciplina e ha rafforzato ed esaltato la mia determinazione. Mi ha insegnato che non sempre può andare bene, anzi ci sono molti momenti difficili; magari semplicemente periodi in cui il tuo impegno è massimo ma i risultati tardano ad arrivare, oppure non arrivano perché capita un infortunio e ti vedi sfumare davanti agli occhi il tuo sogno. Ed è proprio in quei momenti che non si deve mollare e che bisogna invece perseverare. È come la vita: non va sempre tutto liscio, bisogna resistere alla fatica e al dolore; l’atletica mi ha anche insegnato ad essere coraggiosa e ad affrontare gli eventi della vita e le paure; mi ha insegnato ad agire ed esser lucida nelle situazioni di stress e in queste riuscire a tirare fuori il meglio.

E poi mi ha lasciato le amicizie. Con le mie compagne di nazionale siamo rimaste molto amiche. Magari non ci sentiamo o non ci vediamo spessissimo, ma quando succede è come se il tempo non fosse mai passato, come se ci fossimo viste il giorno prima. Rimane un legame speciale venutosi a creare in anni speciali e indimenticabili.

È stato difficile smettere con le gare e l’agonismo?

È stato difficilissimo. Ma diciamo che è venuto un po’ da sé e un po’ è dipeso dalle situazioni in cui mi sono trovata in quegli anni.

Era il 2008 e stavo preparando le Olimpiadi. A gennaio stavo andando veramente forte. Poi purtroppo mi capitò un brutto infortunio al tendine d’Achille e non riuscii più a correre per quella stagione. I medici dissero che avrei dovuto operarmi ma anche che a trentadue anni non sarei tornata più come prima, allora decisi di non operarmi. Pensai che per l’Olimpiade successiva sarei stata troppo vecchia e che magari avrei comunque potuto continuare la mia attività in maniera meno intensa quando il tendine me lo avrebbe permesso. Il vero “addio” alla mia attività di alto livello lo diedi ai campionati italiani del 2009, guarda caso, all’Arena di Milano.

Poi avrei continuato ad allenarmi un po’ e, senza pretese, anche ripreso a fare qualche gara, soprattutto qualche staffetta, venendo anche utile alla mia società.

Avrei anche iniziato a pensare alla famiglia, cercando magari di mettere in cantiere un figlio. Intanto avevo trovato un lavoro a scuola, visto che l’anno di stop non mi permetteva di guadagnare abbastanza. Tutte queste situazioni fecero sì che iniziai ad allenarmi meno sia in qualità che in quantità.

Ma l’evento che mi ha fatto mollare quasi del tutto è stata la notizia della malattia di mio marito Massimo (Vanzillotta, ndr), perché non sarei riuscita ad avere le energie fisiche e tantomeno quelle mentali per allenarmi. E anche perché lui era il mio allenatore e vista la situazione non riusciva più a venire al campo ad allenare.

Quando e perché hai scelto di diventare un’allenatrice?

Non c’è stato proprio un momento preciso in cui ho scelto di diventare allenatrice. Diciamo che ho seguito naturalmente una strada già tracciata davanti a me. O meglio, negli anni alcune mie decisioni hanno tracciato questa strada che poi mi sono trovata bella evidente davanti a me. Oltre ad avere una forte passione per lo sport e per l’atletica, senza i quali non potrei stare, sono laureata in Scienze Motorie (già alle medie decisi che quella sarebbe stata l’università che avrei frequentato!); quindi anche il mio titolo di studio ha fatto sì che diventassi un’allenatrice. Inoltre, Massimo era un allenatore molto dedito alla sua attività e suo fratello Roberto è tuttora un allenatore di grande passione (nonché presidente della mia società di origine, il GEAS). Ho quindi, inevitabilmente, sviluppato un forte senso di appartenenza a quell’ambiente. Inoltre, nel momento in cui Massimo non riuscì più ad allenare, presi io in mano il suo gruppo e i miei compagni di allenamento divennero in un attimo i miei atleti. Poi, alla scomparsa di mio marito, ho definitivamente raccolto la sua eredità al GEAS come allenatrice dei velocisti.

Cosa ti piace nell’essere un allenatore?

Intanto mi piace pensare che Massimo riviva un po’ in me non solo nella mia vita di tutti i giorni, ma anche sul campo di atletica. E molto spesso quando sono con i miei atleti rivedo molto lui con noi. Massimo mi ha cresciuta come atleta e mi è stato maestro nel diventare allenatrice, lasciandomi un bagaglio tecnico e personale enorme. Essere allenatrice mi permette di mettere in pratica tutto quello che ho imparato da lui, mettendoci poi le mie competenze, le mie esperienze e il mio cuore.

Poi mi piace perché permette di tenere sempre molto viva la mia passione per questo sport: mi permette ancora, attraverso i miei atleti, di esprimermi, di sentire l’adrenalina e la tensione delle gare, di gioire e anche soffrire con loro.

Inoltre, una delle cose più belle è poter essere una guida per dei ragazzi che vedono in me un riferimento forte. Mi piace poterli aiutare a crescere in modo sano, cercando di insegnar loro qualcosa di buono non solo a livello motorio, ma anche qualcosa che gli servirà per la vita. Aiutarli a coronare i loro sogni e dar loro l’opportunità di poter vivere delle belle esperienze che ricorderanno per sempre.

La cosa che mi piace di più è la relazione personale che si crea tra allenatore e atleta, soprattutto se di alto livello, e specialmente se il rapporto è iniziato quando l’atleta è molto giovane.

Cosa insegni per prima cosa ai tuoi atleti?

Non sono una che fa molti discorsi di solito. Cerco, instaurando un rapporto di fiducia attraverso il mio comportamento, di dar loro un esempio e una testimonianza di dedizione, passione, impegno e serietà; il tutto condito con una buona dose di benevola pazzia.

Cerco di far capire loro che, se vogliono ottenere qualcosa, devono impegnarsi con continuità, decisione e determinazione; che se vogliono qualcosa se lo devono andare a prendere, perché nessuno glielo porta; che l’atletica è dura ma bellissima, come la vita; che non devono mollare mai e che bisogna porsi dei piccoli obiettivi raggiungibili per poi raggiungerne uno ancora più grande, che è il proprio sogno. Cerco di insegnare la pazienza (anche se non è una delle mie più grosse virtù) e che tutto quello che si vuole ottenere, se si lavora bene, prima o poi arriverà. E poi vorrei sempre riuscire a trasmettere la gioia e la bellezza della corsa.

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